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Come influisce lo smart working sulla residenza fiscale degli espatriati?

Gli sconvolgimenti determinati dalla diffusione su scala mondiale del Covid-19, hanno riportato conseguenze su un numero imprecisato di ambiti, tra cui quello che riguarda la disciplina fiscale dei lavoratori dipendenti espatriati


Le misure restrittive alla circolazione delle persone imposte dagli Stati hanno cambiato le modalità ordinarie di svolgimento del lavoro di molti expatriates che, improvvisamente, hanno dovuto continuare a prestare la propria attività lavorativa prevalentemente da remoto

Le restrizioni ai movimenti hanno sollevato questioni in materia di residenza fiscale e con riferimento all’applicazione delle retribuzioni convenzionali

Un campo che ha risentito delle restrizioni ai movimenti introdotte dagli Stati per contenere la curva dei contagi, è quello dei lavoratori dipendenti espatriati. Sono molti, infatti, i dipendenti che, a causa delle misure di sicurezza imposte dagli Stati, hanno dovuto lavorare in regime di smart-working dalla propria abitazione, pur svolgendo – fino ad ora - la propria attività lavorativa all'estero; attraverso l'istituto del distacco o attraverso contratti di lavoro di diritto estero.

Questa condizione ha inevitabilmente sollevato numerose questioni e interrogativi in ambito fiscale, in particol modo con riferimento al tema della residenza fiscale, del luogo di produzione del reddito e dell'applicazione delle retribuzioni convenzionali.


È questo il caso, oggetto di interpello all'Agenzia delle entrate n. 458/2021, di alcuni dipendenti di una società italiana distaccati con contratto italiano presso le consociate cinesi che, a causa delle misure sanitarie dovute al Covid-19, hanno dovuto trascorrere la maggior parte dell'anno in Italia: lavorando in Italia, da remoto (presso la propria abitazione), pur continuando a svolgere l'attività per conto delle società cinesi.


Nello specifico, la società istante chiedeva all'Agenzia se, la circostanza che alcuni dipendenti, nel 2020, avessero passato la maggior parte del tempo in Italia, anziché in Cina, avesse implicazioni sullo status di residenza; Dato che la permanenza (in questo caso in Italia) di un soggetto per la maggior parte dell'anno fiscale (184 giorni) comporta, in linea di principio, una modifica nella residenza fiscale.


E invero, come precisato nell'articolata risposta fornita dall'Agenzia, è necessario prendere in considerazione due aspetti normativi.


Per quanto riguarda la normativa italiana, viene in rilievo l'art. 2, 2 comma del Tuir, a mente del quale, si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d'imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.


Sotto il profilo della normativa convenzionale, occorre considerare le regole del Trattato che l'Italia ha stipulato con la Cina per definire eventuali conflitti di residenza tra gli Stati contraenti. Queste regole fanno prevalere il criterio dell'abitazione permanente cui seguono, in ordine gerarchico, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità.


Detto ciò, ad avviso dell'Agenzia, poiché i lavoratori distaccati in Cina hanno lavorato da remoto in Italia per la maggior parte del periodo dell'anno, devono essere considerati a tutti gli effetti residenti in Italia; a nulla rilevando la circostanza che il lavoro fosse prestato alle consociate cinesi.


Questa constatazione, comporta, ad avviso dell'Agenzia delle entrate, l'impossibilità di applicare la disciplina fiscale prevista dall'art. 51 del Tuir, comma 8-bis, secondo cui il reddito di lavoro dipendente, prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, da dipendenti che nell'arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro.




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